Altro dalla Puglia... e dal Salento

Tutte le ricette conosciute e da 'rubare' alle nostre nonne per conservare quella cultura provinciale che riporta ancora a noi 'fragranze' e sapori 'veri'.

Altro dalla Puglia... e dal Salento

Messaggio da leggereda Bruno Biscuso » dom 8 apr 2012, 23:09

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08/04/2012

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Salento in bocca



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Testo a cura di Tonio Piceci Giornalista enogastronomico, editore. Direttore responsabile del mensile Salento in bocca. Fondatore della scuola di cucina “Academia Lupiensis”.



La maestosa regione Puglia termina con la penisola Jonico-salentina, conosciuta anche col nome di tallone d'Italia, penisola nella Penisola con tre città molto differenti tra loro e che hanno una comunione di intenti: il territorio e la valorizzazione di tutto ciò che lo può rappresentare.
Se non sei di queste parti e ti capita di venirci, proverai la sensazione di vivere in un'altra epoca, dove la cucina del territorio, fatta di pentole di coccio, tajèddhe, focacce, ortaggi, pesce e frutti di mare, conserva la nobiltà di un tempo pur nella sua semplicità. Il segreto? La virtù della misura; la necessità dei tempi passati, l'equilibrio, la sagacità, il grande campanilismo.
Se ti fermi nel Salento, ricordati di assaporarlo tutto ed a ritmo lento; attardati a scoprire prospettive insospettabili, fermati a parlare con la gente e fatti coinvolgere dalla sua cucina, semplice e al...pangrattato, ma essenzialmente una cucina d'ispirazione marinara.
È sostanzialmente la stessa cucina di una volta, quella cucina che ha sempre rispecchiato lo stato sociale degli abitanti, è sempre stata povera e semplice, intonsa da sofisticazioni e la sua connotazione era fatta da tanti prodotti preparati in casa oltre che i prodotti coltivati dell’orto, necessari per sostentare la famiglia.
Poi l’emigrazione, intorno agli anni ’30, ogni capofamiglia partiva per l’America, ma anche in Argentina e in Venezuela.
I primi cambiamenti avvennero verso il 1900-1930, quando iniziò l'emigrazione soprattutto negli Stati Uniti d'America e in Argentina e successivamente, verso gli anni '50, nelle regioni italiane, soprattutto in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana.
Gli emigranti appena potevano tornavano dalle loro famiglie rimaste nel Salento, portando con loro oltre ad oggetti e vestiario anche alcuni generi alimentari e nuove ricette. Così con il progressivo miglioramento della vita anche la Cucina Salentina iniziò ad arricchirsi.
Le ricette tramandate dal passato erano realizzate quasi sempre con gli stessi ingredienti: la farina, la carne, il latte ed i legumi, il pesce, le verdure e gli ortaggi. I prodotti che si acquistavano erano pochissimi Ed era molto diffuso il baratto anche nel settore del cibo e alimentare in genere.
Un prodotto che veniva acquistato, anche se raramente, era l'olio d’oliva, considerato un lusso poichè pochi erano coloro che possedevano uliveti, esso veniva usato solo per alcune occasioni tipo i banchetti nuziali, oppure per condire l' insalata visto che il lardo non poteva essere usato; alcuni lo mischiavano con l 'acqua per consumarne meno possibile.
C’era un importante consumo di verdure, ortaggi e frutta, quasi tutte le famiglie possedevano un orto dove coltivavano insalate, cavoli, verze, broccoli, patate, zucchine, cetrioli, piselli, fagioli, pomodori, spezie varie.
Da noi, altra grande protagonista in cucina è la salsa di pomodoro, che prepariamo prevalentemente in casa per farla divenire densa e rossa, profumata con il basilico, e che a fine estate, mettiamo nella bottiglia di vetro a chiusura ermetica per conservarla e gustarla nel periodo invernale.
La salsa di pomodoro che si mangia oggi, una volta, era proprio differente; una tipologia si chiamava cunsèrva [conserva]: si schiacciavano i pomodori in una vaschetta con acqua [spriculisciatùra che serviva per una parziale eliminazione dei semi], e dopo si mettevano a cuocere in grossi pentoloni, girandoli spesso. A cottura ultimata si passavano su di un attrezzo chiamato setàcciu [setaccio] fatto di quattro tavole ed una specie di griglia, la polpa che si ricavava si metteva ad asciugare al sole in grandi piatti di terracotta, usati anche per mangiare, chiamati spàse che si chiedevano anche in prestito ad altre famiglie perchè ne servivano parecchi, oppure si mettevano sulle spianatoie, poi si conservava in vasetti di terracotta ricoprendola con uno strato di sugna o di olio d’oliva. Quando si doveva fare il sugo si prendeva a cucchiaiate si scioglieva nell'acqua calda e si faceva cuocere, chi ne aveva la possibilità aggiungeva un pò di carne o anche solo ossa per insaporire. L’altra tipologia era la salsa con l’acido e successivamente quella con la manta che è ancora in uso nel Salento.
Importante era conservare ciò che si produceva per gli inverni freddi e lunghi. Alcuni ortaggi come ad esempio le barbabietole rosse, i peperoni tagliati a strisce, le infiorescenze di finocchietto selvatico [carusèlle], le pere, le melanzane a filetti, si conservavano nell'aceto e si consumavano come insalate.
Saporita per gli amanti della cipolla era la cepuddhàta [la cipollata], si prendeva il tenero bianco degli sponzali, si faceva cuocere con acqua ed un pò d'olio ed infine si aggiungeva l'uovo sbattuto con un pò di formaggio pecorino grattugiato.
Verso gli anni '30 pochi erano coloro che si potevano permettere la carne o comunque il suo consumo era limitato a poche volte durante l' anno. Mentre, già verso gli anni '50 quando le condizioni di vita migliorarono anche la cucina diventò un pò più ricca.
Si allevano galline, principalmente per la produzione delle uova, le quali venivano sia mangiate che vendute, il suo ricavato serviva ad acquistare alcuni prodotti indispensabili come ad esempio il sale, lo zucchero oppure i fiammiferi. Quando queste non facevano più le uova o c'era qualcuna moribonda si ammazzava e con essa si faceva il brodo. Importante era fare il brodo quando una donna partoriva, in quanto si diceva che aiutava per l'allattamento. Si usava che la futura madrina del bambino, nel momento in cui si recava a far visita al nascituro, doveva portare una cesta con una gallina e i trìddhi per il brodo, lo zucchero, le uova, e quello che si aveva in casa.
Il pollo si usava mangiarlo il giorno di San Oronzo [patrono della città di Lecce] e lo si faceva prevalentemente al sugo. Anche le pecore e le capre si mangiavano raramente, allevate per la produzione del latte e della lana e come anche le galline si tenevano nel paese e si lasciavano libere nelle strade.
L' agnello si mangiava nei giorni di festa e non poteva mancare ai banchetti nuziali i quali si svolgevano in casa. Esso si cucinava bollito con le verdure, con il sugo ed in fine, arrosto con le patate. Pitto tipico di Pasqua e Pasquetta era lu quataròttu, una specie di spezzatino composto da: carne d'agnello, cardi, cicorioni o catalogne, lardo o olio d’oliva, uova sbattute con il formaggio, questo piatto è ancora molto usato.
Con le budella dell'agnello si facevano li turcinièddhi [involtini di interiora di agnello] attorcigliandoli su loro stessi, si condivano al centro con prezzemolo e aglio e si cucinavano arrostiti sulla graticola; e poi li gnommarièddhi, [involtini di trippa ripieni di cipolla, formaggio e prezzemolo]; e ancora salsicce, castrato, sanguinaccio [sangue suino con cervella di maiale o di vitello].
La ricchezza della casa, sempre per coloro che lo allevavano, era il maiale, non tanto per la carne quanto per il lardo e c'era quasi una gara a chi riusciva ad ammazzare il maiale più grasso. Dallo scioglimento del grasso si otteneva la sugna, indispensabile in cucina sia come condimento che come conservante. A quei tempi nulla doveva essere buttato e quando si ammazzava il maiale, la prima cosa che si recuperava, per cucinarla successivamente, era il sangue. Con questo ultimo si faceva una crema aggiungendo lo zucchero, il vino cotto e l'uva sultanina, si metteva il preparato nel budello e si faceva cuocere in acqua bollente, indurendo si formava in sanguinaccio che si mangiava come dolce nel corso delle feste natalizie.
L' estate, nel corso delle feste, si usava comprare la granita fatta con la neve caduta durante l' inverno, il suo costo era di cinque soldi. Difficile da pensare come si potesse conservare la neve per tanti mesi, dato che non c'erano ancora i congelatori. Ma c'erano delle caverne di pietra, quasi sempre adiacenti ai frantoi, chiamate neviere, la neve dopo essere stata pressata veniva ricoperta a strati con la paglia. I frutti dell'inverno erano quelli che duravano più a lungo come ad esempio le mele e le pere, si raccoglievano ancora acerbe e si conservano o in una sabbia rossa o in cesti pieni di paglia, per farle maturare. Anche le mele cotogne si raccoglievano acerbe e maturavano successivamente. Si conservano le noci e le noccioline facendole prima asciugare al sole. I fichi si essiccavano al sole
Se poi vieni nel Sud Est, ed arrivi nell'interno, non dimenticare le Murge salentine; ad ogni passo vedrai un trullo, un'abitazione contadina col tetto a cono, una vera tenda di pietra che crea un paesaggio inconfondibile.
E poi il colore della terra, un colore rosso forte non facilmente riscontrabile in altre regioni, che, con gli alberi di ulivo dai tronchi spaccati e contorti, vanno a creare tanti capolavori che sembrano dipinti.
Le case bianche ed i muretti a secco completano uno spettacolo che difficilmente il turista potrà dimenticare.
Nel Salento la cucina è come il paesaggio: essenziale.
Però non per questo meno suggestiva per i tanti profumi, aromi, sapori che evocano richiami greci e spagnoli; pane raffermo, piselli secchi, attinie [urdìchelle], peperoncino, semi di melone [semàta], cardi selvatici, puccia, frisella [fresèddha], grano in sfoglia fritta [cautunàtu] pane in zuppa di siero e scarti di ricotta [fiuràta], ricotta skiànte, sciuscèlla, salamùra cotta, spunzàli [cipollotto selvatico], sciòtta te pìsce, pane frittu, fave nètte e cecòre, fòje rèeste, paparina fritta cu lle ulìe nìure; rape ‘nfucàte; rànu stumpàtu;ràpe all'ègghiu fàttu, futtimariti [frittelle di pastella con capperi, tonno, baccalà,] fiuri de cucuzza, acciughe, pipirùssi allu capasèddu, pipirùssi fritti, sàrsa fatta a casa, le rattàte [ghiaccio grattugiato condito con sciroppi dolci e colorati], mustazzòli, purceddhùzzi, granita de cafè culla panna; sono solo alcuni degli elementi e dei piatti poveri che fanno ricca la cucina salentina. Piatti come quelli descritti, a base di cereali e verdure hanno certamente contribuito ad aumentare il prestigio e l’immagine gastronomica di questo territorio, il Salento, che da sempre utilizza anche altri ingredienti gustosi e molto particolari come i lampascioni e le fave.
Il mio maestro, il prof. Luigi Sada dovendo tradurre in inglese uno dei suoi libri da distribuire nel Regno Unito, si limitò a scrivere, a proposito dei lampascioni: a kind of bulb, una specie di bulbo. Qui in Puglia, secondo la botanica si chiamano muscari racemosum e hyacinthus romanus o anche comusum; gli italiani non pugliesi li chiamavano cipollacci col fiocco.
Da un po’ d’anni si è raggiunto un accordo per cui quelli che una volta si chiamavano pampascioni o lampagioli, piuttosto che lamponi, attraverso un toponimico che è prevalso su tutti ed è stato universalmente accettato, i cipollacci col fiocco sono diventati lampasciòni.
Piccoli come cipolline, senza esserlo, morbidi, profumati, piacevolmente amari al palato, incredibilmente digeribili, i lampascioni hanno così iniziato l’invasione gastronomica del Bel Paese diventando famosi anche oltre i confini pugliesi.

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